Le pareti rocciose della Valle dell'Adige cambiano d'aspetto con il variare della luce: immerse nell'ombra o incupite da un cielo plumbeo possono incutere timore, illuminate dal sole si tingono di un delicato tono di rosa ed incantano. Anche il fiume si lega al cambiamento della natura: se il maltempo lo agita, le sue acque diventano verdi-bluastre ma nelle serate tranquille si trasformano in un lucido nastro d'argento. Dopo la strettoia della Chiusa di Salorno, al viaggiatore che scende da Nord si apre lo spettacolo di un'ampia vallata. Vigneti e frutteti sono racchiusi fra rocce grigie, sfaccettate e traslucide. In corrispondenza di S. Michele all'Adige, sulla destra orografica del fiume Adige si incunea fra le montagne una vasta pianura: il Campo Rotaliano. E' qui che matura uno dei migliori vitigni della penisola, il Teroldego.
Pur essendo dotato di una multiforme e commovente bellezza e di un passato assai movimentato, questo lembo di terra è ancora tutto da scoprire. Non a caso esso segna il confine fra due lingue e due culture, fra il Tirolo ed il Trentino, fra l'Europa continentale e quella mediterranea. Un confine invisibile, ma pur sempre un confine. Anche Elisabetta Foradori, che qui ha avuto i natali, è una donna di frontiera.
La valle del Noce, il Campo Rotaliano con le sue cittadine di Mezzolombardo e Mezzocorona, hanno visto arrivare e partire popoli e signori: coloni retico-etruschi, Romani, Celti, Longobardi, Franchi, Tirolesi, Austriaci, Bavaresi, Italiani. Conquistatori o coloni che fossero, mercanti o soldati di ventura, tutti hanno lasciato le loro tracce e hanno segnato questo luogo in cui confluiscono valli, fiumi e catene montuose.
L'approccio a questa regione divide gli animi in due categorie: c'è chi non ama la montagna e attraversa il Trentino frettolosamente, considerandola una zona di transito, una barriera lungo il viaggio verso l'Austria, la Germania ed i paesi del Nordeuropa, oppure all'inverso, verso il sole del Mediterraneo.
E c'è chi invece vive le Alpi e le Prealpi come un anello di congiunzione, luogo di incontro di popoli e di culture europee, e quindi vi si sofferma, per godere di un'Italia diversa, al di fuori di ogni cliché. Ecco che il Campo Rotaliano permette di scoprire un vitigno coltivato da secoli in un contesto ricco di contrasti e di storia.
Il Teroldego è sempre stato considerato un vino di particolare carattere. Un vino "con il corpo e la forza di un Bordeaux", solo un po' più "ruvido", ma in compenso dotato di "qualità singolari e marcate" e di una "leggera acidità". Così lo descrisse un intenditore nell'Ottocento. In un manuale dell'epoca si legge inoltre che le uve del Teroldego hanno acini scuri e di media grandezza e che le sue viti vanno potate drasticamente e maturano relativamente presto, pur con differenze a seconda dell'annata. Il Teroldego era un vino molto apprezzato a quell'epoca nell'Impero austroungarico, in Svizzera e in Germania.
E' del 1383 il primo documento scritto in cui appare il nome Teroldego, anno in cui un certo Nicolò da Povo si impegnò a corrispondere, a mo' di interesse, una botte di Teroldego ad una certa Agnese che gli aveva prestato del denaro. Fra il Trecento e il Seicento il Teroldego veniva coltivato dal Campo Rotaliano a Rovereto. Nel Cinquecento se ne parla a Mezzolombardo. Nel Campo Rotaliano si insediò stabilmente, mentre altrove finì con lo scomparire. Le fonti presentano ripetuti accenni al "grande potenziale" insito in questo vitigno che nel frattempo è assai più resistente anche alla peronospora (1890) e alla filossera (1912).
La zona di produzione attuale è molto limitata e comprende appena 400 ettari che per il 73% danno vini D.O.C. Il vigneto del Campo Rotaliano si è frammentato nel tempo in molti piccoli appezzamenti lavorati con cura estrema. La terra è poca ed è preziosa.
Ad adoperarsi perché i vitigni locali di qualità fossero rivalutati e nettamente distinti dalla produzione di massa, fu Edmund Mach, il primo direttore dell'Istituto Agrario Provinciale di San Michele all'Adige, fondato nel 1874.
Più di cent'anni dopo, nel 1985, Elisabetta Foradori, con l'appoggio di sua madre Gabriella, iniziò a compiere le proprie ricerche sulla varietà. A quell'epoca il vitigno sembrava aver perso il suo potenziale qualitativo e le sue molteplici variabili genetiche. Tuttavia Elisabetta, che dopo la prematura morte del padre Roberto dovette improvvisamente assumere la direzione dell'azienda, riconobbe ben presto le grandi possibilità dell'antico vitigno e cercò di superare ogni ostacolo pur di riuscire a rimetterle in luce. Elemento di fondamentale importanza fu l'inizio del recupero della biodiversità della varietà attraverso semplici selezioni massali al fine di preservare e salvare la variabilità esistente a quel tempo. A questo seguirono i continui reimpianti dei vigneti con il materiale selezionato che permisero di valutare la stabilità ed il valore dello stesso.
Analizzando ed elaborando infine le notizie storiche sul Teroldego, prendendo visione dei registri dei beni demaniali e delle tenute ecclesiastiche, ricostruì il percorso storico della varietà.
Dopo quasi vent'anni di paziente lavoro il Teroldego ha riacquisito un ruolo qualitativamente definito nel panorama dei vitigni autoctoni italiani. Il vigneto accanto alla dimora dei Foradori è per gli amici del vino una sorta di giardino ampelografico, nel quale è stato ricomposto l'immenso mosaico della variabilità della varietà.
Intanto, con lo scorrere del tempo, le vigne invecchiano e tutto il potenziale del vitigno si esprime in un continuo crescendo nella sua grande profondità.
Il buon vino nasce dal sapere e dalla pazienza.
Così come la creazione di un vino ha bisogno di amore, conoscenza e pazienza, anche la scelta dei nomi necessita di impegno e riflessione. Ad eccezione del Foradori tutti i vini prodotti hanno nomi che si ricollegano alle origini della cultura mediterranea.
Il Granato lega il suo nome al frutto del melograno, frutto che racchiude in sé la molteplicità e la complessità del vino. Gli acini del Teroldego hanno il colore intenso e brillante dei chicchi della melagrana, simbolo da secoli di vita e di fertilità. Il popolo di Israele paragonava la melagrana alla bellezza muliebre, definiva "nettare degli amanti" il suo succo vermiglio e considerava il profumo dei suoi fiori come un presagio di primavera.
Il mirto era una delle piante predilette nella terra d'origine delle Sacre Scritture. Inoltre questo cespuglio dai fiori bianchi ebbe un ruolo importante nell'arte e nella mitologia dell'antica Grecia, essendo sacro ad Afrodite, la dea dell'amore. Non ci si meraviglierà, quindi, che l'unico vino bianco prodotto da Foradori si chiami Myrto.